La polenta è un antico alimento rustico di origine italiana a base di farina di mais o altri cereali.
Polenta | |
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Origini | |
IPA | [poˈlɛnta] |
Luogo d'origine | Italia |
Regione | Pianura Padana |
Diffusione | Italia, Corsica, Svizzera, Francia meridionale, Argentina, Brasile, Romania, Ungheria, Croazia |
Dettagli | |
Categoria | piatto unico |
Riconoscimento | P.A.T. |
Settore | alimenti storici popolari di base |
Ingredienti principali | farina di mais, farina di castagne |
Pur essendo conosciuto nelle sue diverse varianti, pressoché sull'intero suolo italiano, ha costituito, in passato, l'alimento di base della cucina povera in varie zone settentrionali alpine, prealpine, pianeggianti e appenniniche di Lombardia, Veneto, Valle d'Aosta, Piemonte, Liguria, Trentino, Toscana, Emilia-Romagna e Friuli-Venezia Giulia, regioni nelle quali è piuttosto diffuso. La polenta è tradizionalmente cucinata anche nelle zone di montagna di Umbria e Marche, Abruzzo, Lazio e Molise.
Il cereale di base più usato in assoluto è il mais, importato in Europa dalle Americhe nel XVI secolo, che le dà il caratteristico colore giallo, mentre precedentemente era più scura perché la si faceva soprattutto con farro o segale, e più tardivamente anche con il grano saraceno, importato dall'Asia. Pur comparendo un esemplare di mais nell'Erbario di Ulisse Aldrovandi (Bologna, 1551), le prime testimonianze scritte di coltivazioni di mais in Italia fanno riferimento ai territori della Repubblica di Venezia. In un'annotazione alla seconda edizione del Delle navigationi et viaggi di Giovan Battista Ramusio (Venezia, 1554), commentando un testo del portoghese João de Barros (1496-1570), si afferma infatti che:
«La mirabile et famosa semenza detta mahiz ne l'Indie occidentali, della quale si nutrisce metà del mondo, i Portoghesi la chiamano miglio zaburro, del qual n'è venuto già in Italia di colore bianco et rosso, et sopra il Polesene de Rhoigo et Villa bona seminano i campi intieri de ambedui i colori»
È conosciuta anche come polenda o pulenda, in Veneto come poenta, poulento in provenzale, echtinga nell'argot dei sabotiers di Ayas, puluntu in töitschu.
Con numerose varianti, è diffusa anche in Ungheria (puliszka), Malta (tgħasida - storico), nei territori francesi della Savoia e della Contea di Nizza, della Guascogna (cruchade) e della Linguadoca (milhàs), in Svizzera, Croazia (palenta, žganci o pura), Slovenia (polenta o žganci), Serbia (palenta), Romania (mămăligă), Bulgaria (kačmak), Georgia (ghomi), Albania (harapash), Corsica (pulenta o pulenda), Argentina e Uruguay (polenta), Brasile (polenta), Ucraina (culeša), Marocco tra le tribù berbere ("tarwasht"), Venezuela, Cile e Messico.
Nel libro Storia dei Vespri Siciliani di Michele Amari, l'autore scrive che durante uno degli assedi ai francesi (1282-1283) alle mura della città di Messina, le donne siciliane alimentavano i soldati con acqua e polenta (ovviamente non di mais).
Viene prodotta cuocendo a lungo un impasto semiliquido di acqua e farina (solitamente a grana grossa). La più comune in Europa è a base di mais, cioè la classica "polenta gialla". Questa si versa a pioggia nell'acqua bollente e salata, in un paiolo (tradizionalmente di rame), e si rimesta continuamente con un bastone di legno di nocciolo per almeno un'ora.
La farina da polenta è solitamente macinata a pietra ("bramata") più o meno finemente a seconda della tradizione della regione di produzione. In genere la polenta pronta viene presentata in tavola su un'asse circolare e viene servita, a seconda della sua consistenza, con un cucchiaio, tagliata a fette, con un coltello di legno o con un filo di cotone, dal basso verso l'alto.
Il termine polenta deriva dal latino puls, una specie di polenta di farro (in latino far da cui deriva "farina") che costituiva la base della dieta delle antiche popolazioni italiche. I greci invece usavano solitamente l'orzo. Ovviamente, prima dell'introduzione del mais (dopo la scoperta dell'America), la polenta veniva prodotta esclusivamente con vari altri cereali come, oltre ai già citati orzo e farro, la segale, il miglio, il grano saraceno e anche il frumento, in misura minore, soprattutto in zone montane, si usano farine di castagne e di fagioli, dando origine a un impasto più dolce. Le polente prodotte con tali cereali sono più rare, specie in Europa.
Sonnante sostiene che il puls originario fosse costituito da una miscela che includeva semi di leguminose, forse anche spontanee. Esso sostiene che il termine inglese pulses, che indica i legumi in genere, origini infatti dal pre-romano pulus. L'etimologia inglese della parola conferma questa osservazione in quanto fa risalire il nome al XIII-XIV secolo per indicare genericamente i legumi, con probabile derivazione dal francese arcaico pols e dal greco antico poltos, col significato di zuppa spessa. A questo proposito è da notare che è in uso, soprattutto in alcune regioni del Sud Italia, una polenta a base di fave, con la quale si accompagnano verdure come ad esempio la cicoria.
Esistono in commercio farine di granoturco precotte, che permettono di cucinare la polenta riducendo il tempo di cottura a pochi minuti, naturalmente con sostanziali differenze di consistenza e sapore, rispetto alla polenta tradizionale.
Cristoforo Colombo riporta in Europa il mais durante i suoi viaggi, e vive abbastanza a lungo da constatare come questo cereale sia già popolare, se, come riporta un suo contemporaneo, scrivendo a proposito delle popolazioni incontrate dal genovese, nota come queste facciano già il pane con esso . Il famoso scambio colombiano porta, dunque, in Europa il mais prima ancora di comprendere come utilizzarlo. La preparazione dello Zea Mays in America cominciava con la bollitura dei chicchi di mais, seguita dal riposo in una soluzione alcalina (come la calce), arricchendo la farina ricavata di niacina o vitamina PP (Pellagra Preventing) e rendendone possibile la panificazione: ancora oggi troviamo in Messico le tortillas o in Colombia le arepas. I resoconti dei primi viaggiatori, che si dilungavano nel descrivere le pietanze indigene, hanno chiosato su questo procedimento preventivo (detto nixtamalizzazione), mettendo le basi per il dilagare della pellagra in Europa durante la parte finale dell’età moderna. Il mais era infatti, nelle sue differenti presentazioni, la base dell’alimentazione delle grandi civilizzazioni americane, e veniva rappresentato sotto forma di divinità (come, ad esempio, tramanda il libro maya Popol Vuh), ma divenne ben presto anche quella dei colonizzatori.
Nel giro di pochi decenni la presenza del mais viene attestata in varie parti del Veneto, a partire dalle tenute del conte Lunardo Emo nel trevigiano, entusiasta del nuovo cereale al punto che i suoi eredi lo faranno affrescare nella villa di famiglia a Fanzolo (TV) negli anni 60 del XVI secolo dal pittore veronese Giovanni Battista Zelotti. Inoltre, sempre negli stessi anni, la pannocchia viene riprodotta da Camillo Mantovano sui soffitti della Sala a fogliami di Palazzo Grimani a Venezia, sempre negli anni 60 del XVI secolo.
Il XVI secolo si apre all’insegna di una nuova congiuntura economica negativa, causata dalle guerre (e tra questa quella dei Trent’anni in particolare), dalle epidemie (soprattutto la peste del 1630) e da numerose carestie causate da fenomeni atmosferici avversi e da raccolti discontinui (tra cui la cosiddetta piccola era glaciale).
Dal XVI secolo in poi il granoturco si espande a macchia d’olio, sino a divenire, nel secolo successivo, uno dei segni caratteristici del paesaggio rurale dell'Italia del nord, seppur "Solo di rado il mais fu coltivato nei campi al posto degli altri cereali: talora lo si utilizzò come foraggio, piantandolo su terreni a maggese; talora lo si sperimentò nei terreni ortivi. In entrambi i casi la sua presenza è difficilmente percepibile nei documenti, che, mostrandoci il paesaggio agrario soprattutto negli aspetti che toccano l‘interesse dei proprietari, tendono a sorvolare su realtà produttive ―minori‖ che non abbiano un corrispettivo negli introiti di quelli. Gli orti, in particolare, erano esenti da canone: il contadino poteva piantarvi ciò che voleva. E in effetti sembra che in tanti casi la coltivazione del mais abbia avuto inizio in questo modo: dissimulata, quasi furtiva, protetta dalle richieste padronali di decime e di canoni fondiari. Perfino sul piano terminologico il mais tende a nascondersi: i contadini gli danno nomi presi a prestito da altri cereali." .
I raccolti di grano e di grano turco, così come i loro prezzi, cominciano ad avere un andamento sempre più interrelato, dando l’impressione che l’uno, panificato, sia diventato il sostituto dell’altro, consumato sotto forma di polenta, seppur il prezzo del secondo sia costantemente inferiore a quello del primo .
Un ulteriore punto di forza del mais, e della polenta di conseguenza, è dato dal suo potere nutritivo. Esso contiene molte più calorie per unità di peso rispetto al frumento: se si pone questo dato a fianco di quello relativo alle sue rese, si intuisce perché sia diventato in poche decine di anni il perfetto alleato dei contadini nella lotta contro la fame.
La coltivazione, inoltre, è anche molto vorace in termini di manodopera: se a livello di aratura i metodi sono in linea con quelli usati per il frumento, essi iniziano molto presto (addirittura a Sandrigo, paese nel Vicentino, i contadini uscivano di casa verso le due di notte). In seguito, per poter avere un terreno adeguatamente umido per piantare il mais, i lavori preparatori erano faticosi, dai solchi per convogliare l’acqua in tutto il campo, ai canali per prendere l’acqua poi utilizzata per l’irrigazione. Risolto con molte difficoltà il problema dell’aratura, si passava alla semina, attività nella quale gli agronomi, e tra questi padre Harasti di Buda, hanno sempre dedicato particolare attenzione, in quanto doveva essere effettuata tenendo conto delle distanze tra una pianta e l’altra (con la possibilità di inserire tra queste delle colture di diverso tipo, come ad esempio i fagioli, le zucche, gli zucchini e così via). La semente veniva poi interrata con gli stessi attrezzi utilizzati per l’aratura, ovvero la zappa o i semplici bastoni, prestando attenzione al fatto che questa non fosse coperta da troppa o da troppo poca terra . Dopo qualche tempo (più di una decina di giorni per le semine primaverili, una settimana per quelle estive), i contadini tornavano nei campi per controllare che le piantine iniziassero a sbucare dal terreno: si potevano così riempire i buchi, soprattutto nella stagione primaverile. Dopo che le piantine erano cresciute sino ai 20 cm, queste andavano diradate, dando da mangiare quelle in eccesso agli animali presenti nell’aia (ammesso che ce ne fossero); era un’operazione portata avanti di pari passo con la sarchiatura per eliminare le erbacce. Poi i contadini tornavano nel campo per la rincalzatura e per dare stabilità ai fusti delle piante. Di lì in poi il granoturco avrebbe necessitato di quantità sempre maggiori di acqua per il proprio sostentamento, acqua che, se non proveniente dalle piogge, doveva essere necessariamente portata tramite l’irrigazione tramite solchi che fendessero l’intero campo seminato: l’operazione richiedeva precisione, pena la perdita di molte piante (si rischiava di recidere di netto il tronco o le radici). Si riporta che per un campo vicentino (3862 metri quadrati), si necessitasse più di mezza giornata, oltre a quattro persone, due o tre mucche ed eventualmente un cavallo; la mancanza dell’apporto animale avrebbe dovuto essere rimpiazzata da un ancor maggiore apporto umano . Terminata la rincalzatura e la solcatura, andavano tolte le piante spezzate e rafforzati i lati delle capezzagne (per favorire lo scorrere dell’acqua). La siccità estiva veniva dunque mitigata con l’uso efficiente di questi sistemi di irrigazione, creati dai governi degli stati (ad esempio dalla Repubblica Serenissima) e dalle comunità di villaggio o dalla manodopera salariata (quelle secondarie). Un’usanza durata sino a tempi relativamente recenti era la cimatura: tagliare le infiorescenze del mais assieme alle prime foglie, per ottenere cibo per gli animali, con il rischio concreto di compromettere la buona maturazione del mais nel suo complesso. Una volta maturato, il granoturco era pronto per la raccolta, che partiva con la sfogliatura, che lasciava solo il fusto con la pannocchia . Alla fine dell’estate il granoturco veniva quindi raccolto: con un falcetto (o un coltello) si abbatteva il fusto e si staccava la pannocchia da esso; allo stesso tempo le donne raccoglievano le verdure seminate nello stesso campo. Seguiva poi l’operazione di scartocciare il mais, affidata principalmente a donne e bambini: in questo caso, essendo le foglie più vicine alle pannocchie quelle più tenere, potevano benissimo essere impiegate per imbottire i letti dei contadini, oltre naturalmente a nutrire gli animali. Le pannocchie ripulite venivano tenute in un ambiente separato, dal quale venivano prese al bisogno quelle necessarie all’alimentazione quotidiana, staccando i grani di mais dalla pannocchia e portandoli al mugnaio solo quando ce n’era di bisogno: la farina di mais era molto apprezzata quando era fresca, e già dopo un paio di settimane veniva ritenuta non troppo gustosa (o addirittura immangiabile).
Gli attrezzi utilizzati poi per la preparazione della polenta erano la paletta che serviva a raccogliere la farina, il setaccio, il paiolo (normalmente in rame, dentro al quale veniva cotta la farina di mais mescolata all’acqua), il mestolo (per girare la polenta durante tutta la sua cottura), il soco per fare la polenta (una pietra che bloccava il paiolo affinché esso, fissato sopra il fuoco, non si muovesse tutto il tempo, poi sostituita da pezzi di legno ricoperti di metallo o da pezzi di metallo vero e proprio), il tagliere o la stessa tavola per versare la polenta . Alcuni di questi oggetti diedero da un lato lavoro ad artigiani durante tutta l’età moderna, e dall’altro crearono delle piccole economie locali nelle quali chi non poteva acquistarli li prendeva a prestito o li noleggiava da qualche vicino.
Il cinquantino, il mais che viene spesso menzionato ed utilizzato nell’ultimo secolo dell’età moderna, viene piantato dopo il raccolto del frumento e prima dell’arrivo dell’inverno (per questo ancora oggi gran parte delle sagre popolari dedicate alla polenta sono organizzate in autunno), fa la sua comparsa molto tardi, nell’Ottocento inoltrato: infatti padre Harasti di Buda lo inserisce tra le curiosità del nuovo mondo ancora da importare in Europa . Il mais, dunque, fino alla fine del XVIII secolo ha ancora bisogno di parecchio tempo per crescere, ma è già una monocoltura che ricopre gran parte del territorio del nord Italia.
L’idea di nutrirsi di un cibo di origine sconosciuta, di colori diversi a seconda del tipo di mais utilizzato, anche se in forme già note (soprattutto polenta, prodotti panificati in misura minore) fu una conquista che impiegò decenni per affermarsi, specialmente in zone come quelle dell’Europa centrale attraversate durante tutto il periodo da eserciti, anche di grosse dimensioni, che saccheggiavano le campagne e portavano malattie (come la peste del 1630, diretta conseguenza della Guerra di successione di Mantova e del Monferrato). In un simile contesto il suo gusto neutro diviene una delle leve che permisero alla polenta di imporsi trasversalmente nelle diete dei ceti che componevano la società, al fianco delle rese elevate, della facilità di preparazione degli alimenti e della necessità di una maggior forza lavoro rispetto alla produzione del frumento (specialmente in un territorio densamente popolato), oltre che alla disponibilità di sale locale (e alla conseguente tassazione ad esso connessa).
In generale, il legame tra la fine delle carestie e l'introduzione del mais si può dare per assodato già nella letteratura del tempo, attenta sia a problemi economici (miglior modo di coltivare, ottimizzazione nella conduzione dei fondi, ciclo rotativo più redditizio… ad esempio in Padre Harasti di Buda) che ad un equilibrio tra le risorse disponibili e l‘aumento delle entrate (specialmente per migliorare la coltivazione delle colture più redditizie, quali la vite, si necessitavano braccia e lavoro umano, ad esempio in Adam Smith), per cui una diminuzione della mortalità per fame avrebbe certamente giovato al benessere dei ceti possidenti.
La polenta nell’Ottocento italiano assurge a simbolo della miseria contadina, una miseria che travalica i confini della condizione economica, e si fa condizione morale, specialmente dopo i primi casi di pellagra, dura e triste malattia (detta anche delle tre “d”, dermatite, diarrea e demenza). Chiamata già al tempo “mal del padrone” , a indicare come la sua causa principale risiedesse nell’avidità patronale, che espropriava il contadino del frutto del suo lavoro, la malattia risulta prediligere le zone a maggior presenza di piccola proprietà privata. Le sue geografie italiane, inoltre, combaciano quasi perfettamente con i territori di massima espansione della Repubblica Serenissima: è lì che i pellagrosi sono di più, con propaggini in Lombardia ed in Emilia. Per il Veneto, in particolare, le zone più colpite sono le provincie di Udine, Treviso, Padova e Vicenza, tutte terre in cui l’incidenza della mezzadria e della proprietà privata contadina erano più elevate che nel resto della regione. Sull’intero territorio del Regno d’Italia i pellagrosi erano 97.855 nel 1879 e ben 104.067 due anni dopo, per poi scendere del 30% nel 1899 . Ma la pellagra inizia già molto prima, almeno dalla fine del Settecento. La causa della pellagra ci è nota solo dal 1937, momento in cui la malattia era quasi scomparsa in tutta Italia. La carenza di niacina o vitamina PP, infatti, tipica dello Zea Mays non sottoposto al processo di nixtamalizzazione, può essere mitigata con l’apporto di cibi di diversa provenienza (i pellagrosari che nacquero nell’Ottocento, a partire da quello di Mogliano Veneto, furono in prima linea nella lotta alla malattia, trattata anche con cambi di dieta radicali). Nella Relazione Morpurgo, parte della grande inchiesta sulla condizione della classe agraria portata avanti dalla Sinistra Storica (più nota con il nome di inchiesta Jacini), i riferimenti al termine pellagra (pellagra, pellagroso, pellagrosi, pellagrosario…) sono ben 151, mentre polenta appare 78 volte, sorgoturco 19, cinquantino 12, granoturco 2, mais una sola volta: segno inequivocabile di tempi in cui il mais è divenuto sinonimo di polenta, ovvero cibo associato alla pellagra e alle ristrettezze economiche. Se gli anni successivi all’abolizione dell’odiata tassa sul macinato hanno lasciato una traccia nell’immaginario comune, il fatto in tutto il Veneto si consumasse principalmente polenta creò non pochi equivoci alle autorità se le stesse davano la colpa degli aumenti di prezzo o della diminuzione della qualità di quanto acquistato alle brame di guadagni di mugnai arricchiti rispetto all’incidenza delle imposte .
Possiamo anche trovare la polenta nelle ricette delle famiglie di emigrati nell’America del Sud, in special modo nella regione del Rio Grande do Sul brasiliano. Gli immigrati, dunque, anche a distanza di generazioni, rimangono fortemente attaccati alle proprie tradizioni e a quella della polenta in particolare, a dei ricordi di un passato che non è più il proprio, ma viene mitizzato dall’intero ceppo familiare.
La polenta si accompagna molto bene al burro, ai formaggi molli e ai piatti che contengono molto sugo, in generale carni in umido.
In Romania si cucina una polenta pressoché uguale a quella che si cucina nel nord italia, la mămăligă.
In Corsica è diffusa a' pulenta, piatto tradizionale della cucina dell'isola, preparata quasi sempre con la farina di castagne ricavata dai frutti prodotti dagli estesi castagneti presenti nell'isola.
Nelle Antille olandesi si prepara il funchi, del tutto analogo alla polenta, a base di farina di mais e consumato al posto del pane o del riso.
In Burundi si prepara una polenta con acqua e farina di manioca, senza sale, chiamata in kirundi con il nome di umutsima.
In Burkina Faso la polenta di miglio è l'alimento base nel regime alimentare burkinabé.
In Messico si preparano i tamales, preparati con una farina di mais nistagmalizzato (trattato con calce), avvolti in foglie di mais o banano ripieni di carne o ananas e cotti al vapore in una pentola di speciale fattura chiamata tamalera.
La polenta quale alimento popolare è stata più volte raffigurata in dipinti, così come inserita in una certa citazione anche letteraria. Nella seconda metà del Settecento il Ludovico Pastò ne scrisse una lode inserita nel suo lavoro: I due brindisi. Carlo Porta scrisse una lode della pietanza con gli osei.
Il Manzoni inserì l'alimento in una scena del suo I promessi sposi, quale importante protagonista di una povera tavola del Seicento.
«[…] lo trovò in cucina; che con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l'orlo del paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo una piccola polenta bigia, di gran seraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola, e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando con gli occhi fissi al paiolo che venisse il momento di scodellare. […] La mole della polenta era in ragione dell'annata e non del numero e della buona voglia de' commensali […] Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferia, di faccio, che stava apparecchiata a riceverla: pareva una piccola luna, in un gran cerchio di vapori»
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